scritto da Arch. Roberto De Giorgis
La nostra percezione dei castelli non può non fare i conti con l’eredità culturale del Romanticismo che di essi si è estesamente occupato, sia nell’ambito letterario sia nell’Arte, soprattutto quella dell’Eclettismo ottocentesco. Per gli studiosi di architettura è importante anche il ruolo che questa corrente di pensiero ebbe nell’affermarsi di quel particolare (e discusso) tipo di intervento sui manufatti storici che è il Restauro Ricostruttivo[1], considerato oggi se non una barbarie di certo un inaccettabile arbitrio e sostituito ovunque dal Restauro Conservativo.
Tale mutamento di filosofia, nella tutela delle testimonianze storiche, ha prodotto senz’altro una maggiore sensibilità generale sull’importanza della conservazione del patrimonio culturale ma ha portato anche una conseguenza inedita a livello urbanistico: le ultime due generazioni sono le prime della storia che hanno rinunciato alla trasformazione dei loro nuclei urbani, fermando il loro assetto attuale nel tempo, in modo indefinito. Tale atteggiamento, se da un lato garantisce la conservazione integrale di ogni singolo elemento costruito dei centri storici (non solo di quelli dal valore storico-monumentale) dall’altro ha portato fatalmente allo svuotamento funzionale degli stessi e spesso quindi, paradossalmente, al loro abbandono e degrado, soprattutto nei comuni medi e piccoli. In questa prospettiva, i castelli, per la loro natura evocativa, per la loro imponenza fisica e importanza culturale, sono però, anche nei piccoli centri, verosimilmente destinati a non subire questo degrado e quindi a permanere nel nostro paesaggio come luoghi inalterati e emergenti, sia sotto l’aspetto edilizio che storico-testimoniale, fosse anche necessario pagarne il costo sotto forma della concessione alla loro trasformazione in residenze signorili, ciò che, in fondo, sono quasi sempre stati.
Prima di tutto sarà interessante e utile individuare l’origine etimologica del termine castello. Esso deriva con evidenza dal latino castellum ma vi è certamente un ruolo anche del termine castrum o castra che, se nel latino classico viene utilizzato in prevalenza per indicare un accampamento militare (soprattutto nella forma plurale castra), in molte fonti sembra che i due termini vengano utilizzati in modo quasi sinonimico e questa ambiguità originaria peserà sul loro utilizzo fino all’età moderna.
Di seguito non possiamo non occuparci brevemente dell’intensificarsi del processo di incastellamento avvenuto nell’area lombarda e padana soprattutto a decorrere dalla fine del IX secolo. Va ricordato che tuttavia il processo di edificazione di siti fortificati in area padana, e non solo, prese avvio già in epoca tardo-antica, fin da quando le legioni di Roma si rivelarono ormai impotenti alla difesa del territorio dagli attacchi barbarici, e continuò nei secoli successivi in funzione delle piccole e grandi contese politico-militari svoltesi sul suolo della penisola. Tuttavia non si deve pensare a un fenomeno caratterizzato da continuità tipologica attraverso tutto il medioevo, e soprattutto non dovremo pensare che vi sia sempre stata una capillare diffusione del castello sul territorio, fin quasi in ogni villaggio, come avvenne in seguito.
Un duro, eclatante, colpo all’illusione di relativa sicurezza nell’Italia della metà del IX secolo fu inferto dai Saraceni che nell’846 saccheggiarono Roma, arrivando a profanare la stessa tomba di Pietro e costituendo una minaccia costante per secoli, in particolare per le aree centro-meridionali della penisola. Ma il più decisivo fattore di trasformazione, che favorirà il rapido e diffuso incastellamento dell’area padana, fu costituito dall’invasione degli Ungari dell’899 e in particolare dalla sconfitta che, nello stesso anno, re Berengario subì contro di essi sul Brenta, che portò anche alla scomparsa di numerosissimi piccoli centri, di cui spesso non rimane più traccia nemmeno nella toponomastica, in favore di una rapida tendenza alla concentrazione della popolazione in centri più grandi e meglio difesi (da mura o solo da opere a schema fossato-terrapieno). In questo periodo l’unica vittoria in battaglia contro questi razziatori, di cui si ha notizia, fu ottenuta dai Veneziani, che sconfissero duramente gli invasori colando a picco le loro imbarcazioni nella laguna, suggellando così l’avvio a lunghi secoli di gloria militare[2].
Il collasso dell’esercito di campagna di Berengario portò a nuova strategia che puntava soprattutto alla resistenza attraverso le fortezze. Fu in questo periodo che le “licenze di fortificazione” concesse dal re iniziarono a riguardare non più solo singoli siti ma anche interi territori, lasciando ai governanti locali la discrezionalità edificatoria. Vi è comunque il sospetto che, da qui in poi, spesso la minaccia degli invasori esterni fu utilizzata come pretesto dal potere locale per meglio strutturarsi nelle contese di vicinato e nell’oppressione del contado, in un quadro generale di sempre più profonda frammentazione politica.
In tale peculiare prospettiva, e in particolare quella del presidio di zone di confine, di vie di comunicazione, di passaggi obbligati, va letta la specifica situazione del nostro territorio e soprattutto dell’Oglio, fin dalla sua fase più antica.
Un’ultima parte va riservata alla struttura materiale di questi castelli. Prima di tutto l’elemento più caratterizzante di un sito fortificato è la posizione: ovunque possibile i castelli sorsero in luoghi elevati, così da detenere un controllo tattico sul terreno sottostante oppure, se in pianura, là dove corsi d’acqua o paludi favorivano le capacità difensive. Generalmente lo stereotipo comune identifica il castello con le forme delle fortezze del XV e XVI secolo, la tipologia cioè da noi più diffusa e conosciuta (es. castello di Soncino). Questo tipo di struttura rappresenta tuttavia spesso la fase più recente di un processo di trasformazione/evoluzione durato secoli riguardante il medesimo sito, oppure una costruzione ex novo. Non va invece ignorato che con la denominazione di castellum o castrum i documenti spesso hanno indicato opere di difesa che in molti casi erano costituite effettuando una semplice azione di scavo di un fossato e conseguente riporto del terreno, a definire un terrapieno verso l’interno del perimetro di difesa[3]. Tale terrapieno poteva essere ulteriormente munito di una palizzata, denominata nei documenti spiciata o spizata o forse anche tonimen[4]. La stessa presenza di mura lapidee non era affatto scontata e, ove presenti, non tutte erano dotate dell’altro elemento caratteristico dello stereotipo castellano: la merlatura (merulus). Altro termine interessante, presente in numerose fonti, è propugnacula e stava probabilmente a indicare opere di vario genere, forse in molti casi apprestamenti lignei aggiunti a strutture murarie a carattere più o meno provvisorio. Importante dotazione era la bertesca o britisca, piccola prominenza rettangolare attaccata al muro, generalmente al di sopra di un varco o porta, con la funzione di poter bersagliare il nemico sottostante da posizione protetta. In età Comunale si assisté ad un salto qualitativo nella solidità delle fortificazioni, vuoi per vicende politico-militari[5] ma anche a causa di progressi nelle arti offensive, con la comparsa ad esempio dei trabucchi, catapulte a contrappeso in grado di lanciare grandi massi a lunga distanza. Tra le novità vi fu la comparsa del barbacane, una struttura difensiva antemurale, che serviva come opera di protezione aggiuntiva rispetto al muro di cinta o alla fortezza vera e propria, spesso in corrispondenza di una apertura e sovrastata da una bertesca. Ulteriore estensione del concetto di barbacane fu infine il dongione, torrione o strutturato ridotto contenuto nel recinto fortificato a costituire una sorta di castello nel castello.
La nostra realtà locale è caratterizzata da un patrimonio particolare: il sistema dei castelli della Media Valle dell’Oglio, da Sarnico a Cividate. Esso è costituito da architetture storiche poco conosciute, e poco studiate rispetto al ben più percorso tema delle grandi e piccole architetture sacre, e tuttavia con un loro valore testimoniale, architettonico e di intimo legame col territorio e la sua gente. Attraverso i secoli il sistema ha assunto quasi sempre l’aspetto di linea di contrapposizione di confine, tendendo in alcuni periodi ad uno schema difensivo a “vallo” su entrambe le rive, con minuzioso sfruttamento di ogni dirupo e asperità naturale del terreno.
I castelli e i borghi fortificati della MVO sono spesso, sotto molti aspetti, peculiari, così come l’intero sistema che delineano, e sono meritevoli dell’attenzione sia dello studioso che del semplice cittadino desideroso di un approccio non superficiale col suo territorio, poiché hanno contribuito, in modo determinante, a definirne l’assetto e, forse, hanno addirittura plasmato l’indole dei suoi abitanti.
A tale scopo si rimanda all’ottimo e specifico lavoro di Chiara Brescianini, “Il sistema fortificato della media valle dell’Oglio”, a cui nulla si deve aggiungere, consultabile presso la biblioteca di Palazzolo.
Bibliografia essenziale:
- A. Settia, Castelli e villaggi nell’Italia padana. Popolamento, potere e sicurezza fra IX e XIII secolo, Napoli 1986.
- C. Perogalli, Castelli della Lombardia, Milano 1969.
- F. Conti, V. Hybsch, A. Vincenti, I castelli della Lombardia. Provincie di Bergamo e Brescia, Novara, 1993.
- C. Brescianini, Il sistema fortificato della media Valle dell’Oglio, da Sarnico a Cividate, tesi di laurea, Milano, 1994.
[1] Esemplare l’intervento di Luca Beltrami sul Castello Sforzesco di Milano, a iniziare dal 1891.
[2] Benvenuti, Gino: Le Repubbliche Marinare. Amalfi, Pisa, Genova, Venezia, Roma, 1989.
[3] Tecnica utilizzata sin da epoca romana, soprattutto nei castra più o meno temporanei della legione.
[4] Tale termine ha significato incerto poiché potrebbe indicare anche una semplice siepe o rovo posto ad arte, a scopo difensivo, tra fossato e terrapieno.
[5] Si veda soprattutto il frenetico ciclo di distruzioni e ricostruzioni del XII secolo, durante gli scontri tra Lega Lombarda e Impero.
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